I poveri diventa sempre più poveri

 

Di Marco Fantoni



 

Lo scorso mese di marzo, Padre Pierluigi Carletti, 57 anni, originario di Cavigliano e missionario da 33 anni a Guayquil in Ecuador, ha reso visita alla nostra sede di Pregassona dove abbiamo registrato un’intervista per la trasmissione televisiva Caritas Insieme. Riprendiamo dalla sua testimonianza alcuni passaggi quale ulteriore momento di divulgazione della sua opera a favore delle persone in difficoltà del Bastion Popular, il quartiere periferico di Guayaquil.

 

D. Padre Pierluigi, iniziamo dal 1967, da quell’ottobre quando lei decise di partire missionario. Perché fece quella scelta?

Ho sempre desiderato andare verso le missioni, per questo cercavo un posto per andarvi prima possibile. La mia meta allora era il Congo. I Salesiani, ordine a cui appartenevo, mi diedero l’indicazione di partire per l’Ecuador. Così nel 1967, partii verso l’America latina, verso la capitale Quito.

 

D. Lei partì come salesiano senza però essere ancora  sacerdote, il tutto avvenne dunque in terra Sudamericana

Sì, là in Ecuador ho fatto gli studi di filosofia e teologia, praticamente mi sono preparato nella stessa terra dove nel 1977 sono stato ordinato sacerdote, mi sono dunque preparato nella città dove avevo lavorato maggiormente, la città di Guayaquil. In seguito, ho lavorato nel collegio Domenico Savio sempre a Guayaquil, un’opera per giovani che desiderano imparare un mestiere.

 

D. Lei ha sempre avuto uno sguardo verso l’esterno dell’organizzazione salesiana, perché?

Mi è sempre piaciuto incontrare la gente che veniva dalla campagna e che era ancora più povera di quella che arrivava alla nostra opera, al Domenico Savio. Per questo andavo sempre a vedere quelle invasioni di terre vicino alla città, dove arrivava la gente più povera. M’interessavo a loro sempre di più, desideravo persino vivere in una capanna, come loro.

Dato che il mio interesse per loro aumentava, ad un determinato momento i salesiani mi sollecitarono a dedicarmi maggiormente alle loro opere, in quanto non potevano nemmeno accordarmi il permesso per lavorare in quelle zone emarginate.

 

D. Cosa fece all’ora?

Vista la mia insistenza, alla fine i Salesiani mi dissero: “Decidi, o stai con noi o altrimenti parliamo con il Vescovo per incardinarti nella sua diocesi, in modo che tu possa diventare parroco di quel quartiere!”

 

D. Il Vescovo come accettò quella richiesta?

Il Vescovo fu contentissimo perché una città di 3 milioni di abitanti, cresce troppo in fretta, non ha personale, soprattutto per i più emarginati. Accolse la mia domanda e la presentazione dell’ispettore dei salesiani con molto entusiasmo, risolvendo così il problema di una zona emarginata dove nessuno andava ad annunciare il Vangelo.

 

D. Dunque lei fu buttato a capofitto in una realtà che aveva sempre visto dall’esterno, cosa iniziò a fare?

All’inizio vivevo con la gente ed abitavo in una capanna. In seguito cominciarono a conoscermi come sacerdote, e visto che ho uno spirito da salesiano, mi occupai subito di educazione, perché ritengo importante educare la gente e soprattutto i giovani ed i bambini. Così iniziai a dare soluzioni ai problemi che vedevo, che si presentavano sul luogo. A mano che la gente mi chiedeva delle risposte, cercavo di organizzare loro delle iniziative per il bene di tutti. All’inizio l’acqua e la luce, poi la gente ha voluto anche la chiesa. In seguito sono sorti gli asili, poi le scuole, poi i dispensari medici. L’ultima iniziativa è quella del refettorio per nutrire la gente che si trova sempre più in situazioni disperate.

 

D. Da quale realtà socio-economica deriva questa povertà, questa mancanza di organizzazione?

L’Ecuador ha grandi debiti con l’estero ed i governi che salgono al potere, devono continuamente prendere misure econonomiche per pagare gli interessi dei debiti. In 30 anni hanno governato partiti di destra e di sinistra, promettendo che le cose sarebbero migliorate.

Io vedo che da 30 anni le cose vanno sempre peggio, perché i politici non riescono ad uscire dai problemi. Il popolo, soprattutto i più poveri, diventa sempre più povero e i ricchi diventano sempre più ricchi.

 

D. Davanti a questa situazione, lei come missionario, come uomo di Chiesa come è riuscito a sviluppare un discorso positivo in favore di queste persone?

Ho cercato di dare una soluzione attraverso l’educazione, perché penso che l’importante, di fronte a diversi problemi di disperazione,  di non saper risolvere il problema, è che se una persona si educa, può trovare altre iniziative per sopravvivere.  Oggi in Ecuador si sta lottando ogni giorno per sopravvivere, non per vivere. Ogni giorno non si sa mai se si avrà lavoro, se si potrà mangiare, se si sarà ammalati chi ti potrà dare una mano, se si dovrà vendere la capanna per l’operazione;  non si sa mai cosa succede il giorno dopo!

 

D. Quali sono i problemi più urgenti?

Il problema più urgente è quello delle scuole. Affinché esse possano continuare e migliorare l’educazione. Stiamo cercando di organizzare una scuola media, se riusciamo anche una scuola di arti e mestieri per insegnare un lavoro ai giovani. Potrebbero imparare a cucire, tecniche di meccanica, di elettricità o anche una scuola agricola.

 

D. Dovendo informare i nostri lettori, spiegare come la gente del posto vive la propria realtà di povertà, che esempi potrebbe dare affinché comprendano il diverso modo di vivere e la diversa realtà sociale in Ecuador?

Ci sono problemi gravissimi. In questo momento la gente è continuamente in emergenza e non ha soldi per le medicine, per il cibo. Nell’ospedale, prima di andarci, le persone devono cercare qualcuno che aiuti a trovare un letto. Nell’ospedale poi ricevono le ricette e tutto quello che è necessario per un’operazione. Se non si hanno soldi, se non si riesce ad avere i mezzi tramite parenti o vendendo qualche cosa, o impegnando la capanna, dopo tre giorni ci si ritrova sbattuti fuori dall’ospedale. Questo perché c’è sempre una coda di altra gente che ha bisogno di entrare. Se la persona  non trova i dollari per l’operazione, deve andarsene e rassegnarsi a morire.

 

D. In questa situazione, normalmente, i più sfavoriti sono sempre le donne ed i bambini, che realtà vivono in modo particolare nella sua parrocchia?

Moltissime donne cercano un qualsiasi lavoro. Per questo abbiamo aperto  sei asili dove la donna lascia il bambino durante la giornata e va a fare qualche lavoretto nella città, nelle zone dove esistono maggiori possibilità di occupazione. Così possono non lasciare i figli a casa da soli. È una soluzione per poter sopravvivere.

 

D. Ci sono degli episodi particolari di persone, di famiglie che si rivolgono a lei in caso di emergenza?

Ci sono un mucchio di esempi. Ogni giorno ho  persone che si presentano con un’emergenza medica. Per questo ho dovuto aprire un dispensario medico con tutti i servizi di base più importanti. Per prestare questo aiuto ho allestito anche una sala per partorienti. Infatti, la donna per andare alla maternità della città deve pagare venti dollari e a volte non hanno nemmeno quelli. Se non hai venti dollari, l’ospedale tiene il bambino come ostaggio fino all’avvenuto pagamento.

 

D. Se una donna non riesce ad avere questi soldi per partorire, che soluzioni ha?

A volte viene alla Parrocchia o a volte il marito va a rubare, per portarle  qualche cosa. Arriva all’estremo di prostituirsi per poter riavere il bambino.

Ho visto, dopo una riunione che avevo con i direttori delle scuole, finita a mezzanotte, che c’erano due donne che chiedevano aiuto ed una delle due doveva dare alla luce un bimbo. Aveva già percorso un chilometro per arrivare al dispensario medico, lì l’avevano esaminata alle dieci di sera. Avevano capito che il parto era difficile e probabilmente potevano morire  il bambino o la donna o tutti e due. Nessuno voleva assumersi la responsabilità, e così la misero in strada. Era la una del mattino, passando ho visto questa situazione e con un direttore di scuola che mi accompagnava, invitandolo a guidare velocemente verso la maternità, salendo sul retro della camionetta con i cani, sentivo la donna lamentarsi. Ad un determinato momento non sentii più niente, speravo  che quella donna non fosse morta, non ne poteva più, chiedendo poi al direttore  mi disse che il bimbo era nato. La donna aveva partorito in macchina. La donna non voleva più entrare in ospedale perché la spesa era alta e lei non aveva soldi.

 

D. Come sacerdote, rispetto a questa situazione, qual è il messaggio lei porta?

Il futuro per me è l’educazione perché per mezzo di essa, sebbene siamo in una situazione disperata, dalla mente dell’uomo possono sempre uscire soluzioni. I grandi problemi sono problemi mondiali, siamo in un mondo globalizzato dove i problemi non possono essere risolti solo sul posto. Tutto dipende  dalle relazioni politiche e commerciali a livello mondiale. Speriamo che il primo mondo cerchi, insieme al terzo mondo o quarto o quinto o sesto mondo, delle soluzioni. Noi, gli altri laggiù, siamo come nel fondo del bastimento, stiamo quasi affogando, però se affoghiamo noi, un giorno ci sarà uno scompiglio anche nel primo mondo, anche per quelli che stanno in cima del bastimento.

 

D. Quali sono i progetti per il futuro?

In primo luogo devo mantenere l’opera che ho attualmente e che costa sempre di più. La gente è sempre più povera. Come dicevo all’inizio ho sette scuole da mantenere, perché l’aiuto dei genitori è minimo e ogni scuola costa mille dollari dunque sono settemila dollari al mese. Poi per le medicine, per i casi di urgenza, malati, spendo altri tremila dollari. Ho una spesa per le opere sociali della parrocchia di diecimila dollari al mese. Sono venuto in Ticino è per lanciare un aiuto di SOS per poter continuare.

 

D. Lei lancia un SOS ai ticinesi, alla Svizzera italiana. Queste opere che sta portando avanti vengono finanziate solamente dagli aiuti che riceve dal Ticino oppure ha anche altre entrate?

In questo momento ed anche in precedenza ho sempre ricevuto dalla gente di buona volontà del Canton Ticino. Prima non c’era tanta necessità ed inoltre avevo degli aiuti speciali. Ora sono terminati e con le misure economiche adottate dai governi,  che hanno sempre peggiorato la situazione, il tutto si ripercuote anche sulle scuole, sugli asili, sui refettori.

 

D. Che appello vuole lanciare ai nostri lettori e alla popolazione della Svizzera italiana in genere?

Che mi diano una mano, con la preghiera. Come dice il Signore: “Se non avete le opere, non vale la vostra preghiera”. Così ho bisogno della preghiera e dell’aiuto materiale. La gente del posto già mi aiuta, maestri, donne che cucinano, che si occupano dei bambini dell’asilo; il personale c’è, però ho bisogno di un aiuto materiale per sostenere queste opere, questa gente. In futuro vorrei anche che non ci fossero altre scuole elementari, almeno due scuole medie perché i  ragazzi, le ragazze possano imparare un mestiere. Una buona possibilità di lavoro per i giovani che si educano nella mia parrocchia.

 

Un impegno sicuramente difficile per Padre Pierluigi, non solo dal punto di vista finanziario, ma anche da quello della formazione della persona, così minacciata anche in questa parte di Terra Sudamericana dalle “attrazioni esterne”. Le sue opere hanno, da una parte il pregio di aiutare sicuramente molte persone, da l’altra il difetto di non avere una minima forma di autofinanziamento se non quello importante e generoso dei sostenitori della Svizzera italiana.